Accademia “Marsilio Ficino” - Istituto “Marsilio Ficino” - Comunità di San Leolino - Diocesi di Fiesole
Le ragioni di un seminario
Il nostro sistema scolastico ha ridotto la Storia a un fatto puramente cronologico, fatto di date, nomi e battaglie. Nei manuali le notizie e il racconto degli avvenimenti storici viene sempre più ridotto a vantaggio delle immagini trasformando i libri di testo in lussuosi bignami da 20 euro. Pur abbandonando la frase quanto mai retorica della Storia maestra di vita, è necessario ridare a questa materia il suo valore filosofico, sociologico, culturale e antropologico. La Storia è un organismo vivente, in continuo divenire, con tante diramazioni e sfaccettature proprio come è nella natura dei suoi protagonisti, gli uomini.
Per questo il compito dello storico è un lavoro difficile perché deve tener presente contemporaneamente diversi piani che difficilmente possono trovare una sintesi definitiva. Del resto, anche se in buona fede, lo storico è influenzato dalle condizioni culturali, sociali e politiche del suo tempo che indubbiamente entrano in gioco nel momento dell’analisi e della relativa spiegazione di un dato avvenimento. Ecco l’utilità di rimanere costantemente aggiornati e di non accontentarsi mai di quanto già conosciamo. Non si tratta di compiere revisionismi storici, nel senso che il Fascismo è e riamane una dittatura, ma possiamo migliorare i nostri strumenti di indagine per scendere sempre più a fondo nella conoscenza della sua identità e “verità” fenomenologica.
Recenti studi, infatti, stanno cambiando la prospettiva che vedeva la genesi del Fascismo nella crisi economica e nel disorientamento sociale provocati dalla distruzioni della Prima guerra mondiale. Nella paura provocata dal biennio rosso e nell’incapacità della classe politica e della Monarchia di trasformare l’Italia in uno stato moderno capace di stare al passo con gli altri Paesi europei. Ma ne individuano la causa principale nello stesso nazionalismo di gran parte della classe dirigente e degli intellettuali che aveva portato l’Italia in guerra. In particolare nella corrente del nazionalismo imperialista. Per gli imperialisti, infatti, abbandonati gli ideali risorgimentali, non si trattava più di riconoscere il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione e alla formazione di una nazione libera di autogovernarsi, ma del diritto alla supremazia di un popolo e di una nazione sulle altre. Anche l’Italia non poteva e non doveva contenersi. Doveva prepararsi a competere con le altre nazioni attraverso una politica di forza, di grandi imprese e di espansionismo. Nasceva il mito della Grande Italia che non si accontentava più della raggiunta indipendenza e unità nazionale ma ambiva a diventare una grande potenza. Per fare questo era necessario promuovere un radicale processo di rigenerazione morale, culturale, da cui doveva nascere un “italiano nuovo”, con una forte coscienza nazionale e una salda fede nel suo destino.
Vi erano, comunque, diversi modi di interpretare la nuova coscienza nazionale degli italiani. Ad esempio la corrente umanistica, espressa dai giovani intellettuali riuniti attorno a «La Voce», sosteneva la necessità di dover preparare gli italiani ad affrontare con consapevolezza e realismo le sfide della modernità, per contribuire insieme alle altre nazioni all’edificazione di una nuova civiltà fondata sulla libertà dell’individuo e delle nazioni. Insieme alla corrente cattolica e socialista, i vociani non volevano rinunciare ai valori espressi dal Risorgimento, alla tradizione democratica e alla solidarietà dei popoli. La partecipazione alla Grande Guerra, comunque, rappresentò per tutte le correnti nazionaliste un esame di maturità morale della nazione italiana, per provare la capacità dell’Italia di essere protagonista della storia mondiale.
D’altra parte, la corrente imperialista concepiva la nazione come unità di stirpe e volontà di potenza collettiva unicamente tesa alla conquista e al dominio, sotto la guida di uno Stato forte. L’esplosione della guerra europea nel 1914 fu naturalmente salutata con entusiasmo dai nazionalisti imperialisti che la reclamarono con il determinato proposito di liberare l’Italia dalle ideologie liberali, democratiche e socialiste che avevano fino ad allora ostacolato la realizzazione dello stato nazionale. La prova della guerra finì per avvalorare la loro concezione della nazione, «considerata non come pura somma degli individui viventi, ma come unità riassuntiva della serie indefinita delle generazioni. La preminenza necessaria ed assoluta dei fini nazionali sui fini degli individui o dei gruppi di individui (categorie e classi) implica l’assoluta supremazia dello Stato, che è la nazione appunto organizzata ed operante, l’affermazione rigida della sua autorità sugli individui e sulle classi» (Alfredo Rocco, Scritti e discorsi politici). Su questa scia si inserì il Fascismo che nell’antagonismo ideologico del dopoguerra, con la forza della violenza e la suggestione di una nuova fede fanatica nel mito della nazione, emerse vincitore su gli altri nazionalismi. Arrogandosi il privilegio di essere l’unico e indiscusso interprete della volontà della nazione e l’unico rappresentante della nuova Italia nata dalla guerra.
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